22/12/2012
Se vi aspettate di sentire parole di cronaca nera, quella che puzza di organizzazione criminale, quella che la televisione racconta…cambiate palcoscenico. Al Teatro Duse, la mafia si è respirata.
Pezzi di tronchi in legno che fanno da gradino per i suoi piedi nudi, sempre più in alto. Un Pinocchio, anche lui in legno, che si finge attore-interlocutore inerme. Un uomo, attore ed interprete, che fa delle parole e delle infinite espressioni facciali un racconto reale accompagnato dai scattosi ed irruenti movimenti del corpo.
Chiunque lo definisca un monologo commette un errore di quelli da debito scolastico. In Aldo Rapè e nel suo modo di recitare e prendere possesso del palco c’è la voglia di fare di te, spettatore, il suo più intimo conoscente. Sarà forse l’atmosfera di raccoglimento ed avvolgimento che ti accoglie all’entrata del Teatro romano che lo ha visto in scena per tre lunghe ed intense settimane. Sarà l’esiguo numero di poltrone che invitano a sedersi, un altrettanto esiguo numero di curiosi. Sarà piuttosto il nome stesso dello spettacolo a non consentirti di fregartene, volgere le spalle, scrollarsi di dosso la pesantezza della giornata e dire: “Via anche oggi è passato”.
W la mafia! Aldo Rapè, siciliano dentro e fuori, non poteva che attirare con un titolo più tagliente e paradossale di questo. Aldo Rapè è solo sul palco, è tutto suo e per tutto il tempo necessario crea ed apre un mondo, quello dei bambini e delle Storie, o meglio Favole.
Tradizione vuole che l’elenco dei protagonisti erranti dei racconti fiabeschi conoscano anche il male, l’oscuro, il nemico che tenta fino alla fine di intralciare le vite dei buoni tenendo noi in quello stato d’ansia che si traduce in tifo scatenato per il protagonista portatore di giustizia ed amore.
Qui però, le favole sono il mezzo, la realtà sanguinaria è il fine. Parlare di mafia è tema ricorrente, sensibile a molti ma penetrante per pochi. I modi per farlo delle volte esulano dal loro dovere, quello di trasmetterti sulla pelle la sensazione di chi la mafia la vive e la conosce.
Questo siciliano, vincitore del premio del festival teatrale di Avignone, la maniera per farti rabbrividire e scaldare la pelle lo ha trovato nello scrivere e mettere in scena la storia di un adulto trentenne mai cresciuto, un piccolo fanciullino alla Pascoli che s’è visto ammazzare padre e madre dalla mafia nel giorno del suo dodicesimo compleanno, e s’è sentito dire poi, che quella è stata una morte trasversale, di quelle morti che capitano perché in un modo o nell’altro sei un remoto e lontanissimo perente di uno di quei boss nemici da far fuori. Una vendetta fredda servita senza chiedere permesso.
Le movenze della mani del padrone del palco sembrano quelle di un pittore che cerca di continuo di stravolgere con cura la sua opera fluttuando il pennello al cielo, gli occhi del Calogero trentenne brillano perché sa che sta raccontando cose reali, vere, siciliane, italiane.
Durante tutto quel fluire di parole, discorsi che divengono sfoghi emotivi e frenetici di instabilità personale, il tuo dovere è quello di ascoltare ed avvertire quelle stesse sensazioni che ingenuamente, coi piedi nudi da quel tronco di albero, l’unico Lui sul palco tenta di darti. Il W la mafia è un inno di insulto alla distruzione sociale, personale ed umana della dignità e per questo va gridato come fa Aldo, nelle vesti di Calogero dall’alto del suo vivere sui tronchi. Niente lieto fine, c’è solo un cielo di stelle, ognuna delle quali sta li su a ricordare chi sono le vittime di mafia, nomi e nomi di persone che con il potere sporco non centravano nulla, tutt’altro ne erano l’antitesi.
La capacità del Teatro è di riuscire a fare del pubblico un tutt’uno con gli attori in scena, anche se non recita personalmente la platea ne assume le emozioni e le sensazioni. Capirlo non è sempre così semplice, poiché in troppi si avvalgono del loro essere prevenuti a tematiche di tale portata, ed in troppi sfuggono dall’andare a curiosare nei Teatri poiché cosa vecchia o noiosa.
Il vero talento non è solo di chi recita sacralmente bene, ma è anche di chi si lascia travolgere dalle storie che si raccontano e si vivono verosimilmente su di un palco che non divide chi ascolta da chi parla, ma preferisce fartele toccare con mano le emozioni, tu e lui faccia a faccia. Teatri come l’Eleonora Duse di Roma, così piccoli, e profondamente intimi ed indipendenti da tutto quel mondo artistico gestito nelle mani di pochi, si avvalgono della loro libertà d’essere per dare spazio a chi ne ha poco nonostante trabocchi di passione e talento, questo è Aldo Rapè e questo è il suo Calogero che racconta di mafia credendo ancora ed incessantemente nelle favole.
Martina Martelloni