Santuario di Montevergine: pellegrinaggi tra sacro e profano

11/10/2012

Il pellegrinaggio al Santuario di Montevergine, in provincia di Avellino, per visitare, pregare e invocare la protezione della “Madonna Nera”, o più comunemente conosciuta come “Mamma Schiavona”, è uno dei riti più antichi della Campania e per certi aspetti uno dei più controversi. Infatti, non sono mancate vere e proprie “condanne” da parte delle autorità ecclesiastiche per alcune tradizioni che da anni animano la tradizione e il folclore popolare partenopeo ed in particolar modo il pellegrinaggio dei “femminielli” che si tiene ogni anno il 2 febbraio.

Il quadro della Madonna Nera di Montevergine in provincia di Avellino

La tradizione fa risalire i primi pellegrinaggi di fedeli già ai tempi del santo fondatore del Santuario, Guglielmo da Vercelli, siamo nel primo quarto del XII secolo. In tanti salivano al Santuario “per invocare la misericordi di Dio e il perdono degli innumerevoli peccati”, è questa la frase che si legge in un documento del 1139.

A testimonianza di una devozione popolare per la Madonna di Montevergine sempre molto sentita dalla popolazione campana, ma anche nel resto dell’Italia Meridionale e con i tanti italiani emigrati all’estero, la devozione ha assunto un carattere universale

Il Santuario di Montevergine è anche oggetto di tradizioni e aspetti folcloristici legati al pellegrinaggio. Una delle più antiche consuetudini, risalente a San Guglielmo, prevedeva la rigorosa osservanza del digiuno durante la salita del monte sulla cui sommità sorge il Santuario e edificato nell’area che in età romana era dedicata alla dea Cibele, l’antichissima dea Madre proveniente dall’Asia Minore, i cui sacerdoti celebravano il culto vestiti di abiti femminili.

La Madonna è venerata anche dai giovani innamorati, sui sentieri, si scorgevano cespugli di ginestre annodati; erano le ragazze o donne non ancora maritate ad intrecciarle. Se si sposavano, sarebbero tornate l’anno successivo, in compagnia dello sposo, a sciogliere il nodo.

Una veduta del Santuario di Montevergine in provincia di Avellino

Altra espressione tipica del pellegrinaggio era la partecipazione di fanciulle dai tredici ai diciotto anni, denominate verginelle o scapillate. Vestivano di bianco e salivano in gruppo al Santuario, quasi sempre scalze, per conto di terze persone, alle quali era stata appena concessa una grazia, o per voto. Si riteneva, infatti, che la loro tenera età, espressione di purezza e incorruttibilità, costituisse cosa di maggior gradimento a Dio e di conseguenza, l’attuazione del voto, poteva raggiungere la massima efficacia.

Ma a Montevergine per la Candelora (che si festeggia il 2 febbraio) si svolge anche un singolare pellegrinaggio che nel corso degli anni ha dato adito a non poche polemiche. E’ proprio in quel giorno che va in scena quello che la chiesa non vorrebbe mai vedere, ma che la tradizione campana da sempre reputa come uno dei momenti più importanti dell’anno della devozione: il pellegrinaggio dei “femminielli” ossia gli omosessuali travestiti che popolano alcune zone della Napoli antica ed in particolar modo i Quartieri Spagnoli.

Questa antica tradizione risalirebbe al 1256, cioè all’anno in cui due omosessuali furono cacciati dalle mura cittadine per atti osceni, portati sul monte Partenio e condannati a morire di freddo in una notte d’inverno, ma qui vennero salvati da un miracolo poiché il sole squarciò le tenebre e gli consentì di sopravvivere.

La Candelora a Montevergine è ancora, sotto certi aspetti, la festa di primavera presso il tempio di Cibele. Anche per questo i femminielli, i gay, i trans vanno ad invocare “Mamma Schiavona”, dove c’era il tempio della dea del cambiamento e della gioia della rinascita. Poco importa se quella dea pagana ora è la Madonna Nera che ha dato alla luce il figlio di Dio.

Gennaro Carotenuto

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